Definirlo un giramondo forse sarebbe
riduttivo. Ma voi come chiamereste un allenatore che ha lavorato in
Francia, Camerun, Bulgaria, Libia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi?
Stefano Cusin, italiano nato in Canada, non si è fatto
mancare anche diverse esperienze nel nostro paese (ha allenato le
giovanili di Arezzo e Montevarchi, oltre ad essere stato osservatore
della Fiorentina). Nell'estate 2010
la sua strada si è incrociata con quella di un certo Walter
Zenga, del quale è stato il vice all'Al Nassr Riyadh prima e
all'Al Nasr Dubai poi. Dopo due anni insieme, ha però deciso di
salutare l'ex portiere e dalla prossima estate lo vedremo sicuramente
su una nuova panchina. Ho
raggiunto in esclusiva Cusin per un'intervista, speriamo interessante
come la sua carriera.
Partiamo con le due esperienze con
Zenga, la prima in Arabia Saudita e la seconda negli Emirati Arabi...
“Per me sono state due esperienze
determinanti. Walter lo stimavo già da prima e l'ho sempre seguito
in tutte le sue squadre. La possibilità di lavorarci insieme ha
rappresentato una grande palestra, ho imparato tanto da lui ed è
stato decisivo per la mia carriera. In Arabia Saudita c'è un clima
molto particolare, l'unico divertimento è il calcio. Lavoravamo per
una delle più importanti squadre del paese, all'aeroporto avevamo a
volte anche settemila tifosi che ci seguivano in trasferta. E' stata
una grandissima esperienza dal punto di vista umano, ho scoperto un
paese con valori molto profondi. A dicembre i problemi relativi ai
pagamenti ci hanno costretto andare via, ma lo abbiamo fatto da
secondi in classifica, cosa che non succedeva da vent'anni. Giusto il
tempo di firmare e siamo volati a Dubai, una città fantastica. Lì
ho trovato un ambiente completamente diverso e una cultura
completamente diversa, anche se il mondo arabo visto da fuori sembra
tutto uguale. L'Al Nasr era una nobile decaduta alla quale mancava lo
scudetto da venticinque anni. Quando siamo arrivati la squadra era
quartultima in classifica e, a mio parere, abbiamo fatto un super
lavoro. Walter è stato molto bravo, tutti abbiamo dato il 200% e
siamo riusciti nell'impresa di creare una squadra dal nulla. Abbiamo
disputato un grandissimo finale di stagione vincendo le ultime cinque
partite e riuscendo a qualificarci per l'AFC Champions League (la
Champions asiatica, ndr). Nessuno se lo sarebbe mai aspettato.
Nella seconda stagione siamo partiti ancora meglio e, dopo un
campionato di grande intensità, ci siamo classificati secondi
ottenendo nuovamente la qualificazione in Champions. E' stato un
cammino lungo ma bellissimo. Dal punto di vista sportivo è stato un
grande successo, basti pensare che alla prima partita dopo il nostro
arrivo c'erano settanta spettatori e all'ultima di campionato ben
ventiduemila. Ho ricordi bellissimi di entrambe le esperienze, non
solo per i grandi risultati ottenuti ma soprattutto per i tanti
momenti dal punto di vista umano che abbiamo condiviso tutti
insieme”.
Avendo allenato in tre paesi diversi
dell'Africa, nessuno meglio di lei potrebbe descriverci la realtà
del calcio africano.
“L'Africa rappresenta un enorme
serbatoio di giocatori, è un'area piena di bravi giocatori bravi. Il
vero problema è che in tanti paesi mancano le strutture e ciò
ostacola la crescita finale del calciatore. Tanti grandi talenti
restano nel continente africano fino ai sedici anni, poi volano in
Europa per adeguare la propria formazione dal punto di vista tattico
e della cultura. Per me gli anni trascorsi in Africa sono stati
importanti durante i quali non solo ho scoperto continente, ma anche
una mentalità. Il calcio è lo specchio della società. Quelli
africani non sono paesi con lo stesso sviluppo di quelli
sudamericani, non ci sono televisioni né i soldi per mantenere i
giocatori di qualità. Fa eccezione il Nord Africa, strutturato il
modo differente, l'Angola, che ha un campionato interessante, e il
Sudafrica, che ha più mezzi a disposizione. Il calcio africano è
molto più complesso di quello che sembra, invece non basta recarsi
sul posto per scovare nuovi talenti”.
A proposito di talenti africani, chi
ti ha impressionato durante l'ultima Coppa d'Africa?
“Dal mio punto di vista è stata
una Coppa d'Africa deludente per diversi motivi. Innanzitutto
l'ultima edizione era forse troppo fresca, essendo trascorso un solo
anno. Poi il paese organizzatore, che aveva dato vita ad un grande
Mondiale nel 2010, non è riuscito a fare lo stesso con questa
competizione. Tanti campi da gioco erano in condizioni veramente
pietose, un peccato per lo spettacolo. Uno dei giocatori più
brillanti di questo torneo, pur non essendo più giovanissimo, è
stato Seydou Keita; l'ex Barcellona ha dimostrato di possedere
personalità, geometri e tecnica, vederlo giocare è un piacere. La
Nigeria ha vinto meritatamente con tanti giovani di qualità. Io
personalmente non l'avevo indicata come una delle favorite, ma ha
dimostrato di essere una squadra compatta con il giusto mix tra
calciatori giovani ed esperti. Mi sono piaciuto molto i due centrali
difensivi Omeruo, classe '93, e Ambrose, classe '88. Poi non vorrei
essere banale, ma Traoré e Pitroipa del Burkina Faso hanno disputato
una grandissima Coppa d'Africa. In generale, però, non sono stati
proposti tanti nomi nuovi, la maggior parte dei giocatori era già
nota e conosciuta prima”.
Con Camerun e Acada Sports ha
partecipato a due edizioni del Torneo di Viareggio: come mai, a suo
parere, viene puntualmente snobbato dalle big europee?
“Quindici giorni fa mi trovavo in
Qatar e lì, per partecipare ad un torneo, c'erano le giovanili di
Barcellona e Real Madrid. Per partecipare al Viareggio ogni squadre
deve pagare una quota di iscrizione, mentre per attirare squadre di
questo livello non bisognerebbe fargli pagare niente e, anzi, farsi
carico delle spese. Credo che il problema sia di natura economica, il
Torneo di Viareggio ha dei costi importanti da sostenere e la
risposta alla domanda sta proprio qua. Dal punto di vista prettamente
personale, conservo un grandissimo ricordo delle mie due esperienze
al Viareggio. Tutti si aspettavano di trovare la classica squadra
africana impreparata e, invece, abbiamo conquistato degli ottimi
risultati. Nel 2005 abbiamo giocato contro l'Inter nell'ultima
partita del girone riuscendo a strappare un pareggio, dimostrando
così che il calcio africano è ben strutturato”.
Ma come viene vista all'estero
l'Italia del calcio?
“A questa domanda c'è una doppia
risposta. In senso assoluto, l'Italia ricopre sempre un ruolo
importante nel calcio mondiale; siamo rispettati perché ci
riconoscono una grande cultura tattica e perché abbiamo vinto tanto,
i successi sono per sempre. Dall'altra parte, però, all'estero
sostengono che a livello giovanile potremmo fare molto meglio: questa
è l'accusa che viene rivolta all'Italia. Se non lavoriamo bene in
questo settore, alla fine i nostri giovani sono inferiori a molti
stranieri. Tranne pochi casi illustri come l'Atalanta, non vengono
fatti gli investimenti che invece servirebbero. Recentemente ho
seguito molto il calcio tedesco e lì hanno fatto tantissimi
investimenti, così si sono ritrovati a vincere in Europa a livello
giovanile. In Spagna si investe molto nel settore giovanile, ci si
affida ad allenatori giovani con idee brillanti e si dà spazio al
giovane calciatore, messo in condizione di poter crescere anche
sbagliando. In questi paesi c'è un progetto, che forse è quello che
manca all'Italia”.
Per chiudere, quale sarà il futuro
di Stefano Cusin?
“Siccome ho lavorato tanto in
questi ultimi cinque anni e le vacanze le utilizzavo per studiare e
per partecipare al corso a Coverciano, non avevo mai tempo per
riflettere e riorganizzarmi. Già prima del termine della scorsa
stagione, avevo detto a Walter che non avrei proseguito con l'Al Nasr
perché volevo ricominciare a lavorare da solo. Così mi sono preso
un anno sabbatico per studiare il calcio da vicino. Ho viaggiato
tantissimo avendo modo di studiare, prendere informazioni e di
crescere. Il mio futuro sarà comunque in un paese del Golfo
(Persico, ndr) o dell'Africa”.
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