Forse il suo nome non sarà noto ai più, ma Gianni Dellacasa è
senza dubbio uno degli allenatori italiani con un bagaglio di
esperienza più importante a livello europeo e non solo. Dopo aver
allenato le giovanili del Torino, ha allenato per molti anni in Svizzera con una parentesi in Serie B alla guida della Cremonese.
Poi in Ungheria e addirittura in Algeria, ma adesso è arrivato il
momento di rimpatriare. Mister Dellacasa ha concesso una lunga ed
interessante intervista ai miei microfoni.
Mister Dellacasa, come si spiega che un tecnico con il suo curriculum sia ancora senza squadra?
“La risposta è molto semplice: il calcio è in evoluzione, sta
cambiando e non si fanno investimenti sugli allenatori. Dopo la mia
ultima avventura in Algeria, ho ricevuto diverse offerte dal Nord Africa
che però ho deciso di rifiutare. Perché? L'esperienza in Algeria è
stata interessante dal punto di vista sportivo e ho avuto anche
l'occasione di allenare ben otto nazionali algerini; ma sotto tutti gli
altri profili è stata un'esperienza negativa, ma lì hanno una mentalità
molto particolare”.
A distanza di sei anni, le piacerebbe tornare ad allenare in Italia?
“Sarei contento di riproporre in Italia questo mio bagaglio di
esperienza. Mi piacerebbe molto e spero che si riesca a perfezionare
qualcosa con un club serio. Se ci fosse un programma ambizioso
accetterei anche di allenare in Lega Pro, altrimenti per navigare in
acque tranquille potrebbe essere interessante solamente con progetto
serio che punti molto sui giovani. Vedremo, bisogna sedersi al tavolo
con i dirigenti per tracciare una linea comune”.
Amarcord: le stagioni 1995/96 e 1996/97 al Torino furono da incorniciare...
“Sì e mi sono trovato benissimo, con me al Toro sono cresciuti
giocatori che tutt'oggi si ritrovano in Serie A. Con gli Allievi
Nazionali fu un anno incredibile; al di là della cavalcata a livello di
risultati, i giovani mostrarono grande capacità di trasformarsi sotto il
profilo del gioco in una sola stagione. Quando allenavo la Primavera mi
dovetti confrontare con le esigenze della prima squadra; c'era un
continuo travaso di giocatori e questo creò un gioco meno spumeggiante
ma più tattico. Arrivammo fino in finale al Torneo di Viareggio e
perdemmo 1-0 contro il Bari, ma fu tutto molto bello”.
In Svizzera ha allenato ben sei squadre diverse, come mai ha scelto un campionato così poco blasonato?
“Dopo quei due anni al Torino andai ad allenare l'Ivrea in Serie
D, un'altra esperienza che mi ha lasciato il segno a livello umano; ho
conosciuto un presidente e dei dirigenti fantastici. Ricordo che quando
ci accordammo sul contratto fu inserito un premio per la salvezza, io
dissi che avrei voluto il premio raddoppiato in caso di vittoria del
campionato. A sei giornate dalla fine eravamo secondi in classifica a
soli tre punti dalla Sanremese. Poi arrivammo quarti, ma ai play-off non
partecipai perché arrivò la chiamata del Bellinzona; fu Calleri, che
era stato mio presidente al Torino, a contattarmi. Ci laureammo campioni
per due stagioni consecutive, grazie alla doppia vittoria del
campionato di Serie B e C. In B ci qualificammo ai play-off, ma non
riuscimmo a salire. Calleri poi si era disimpegnò ma io rimasi per altri
due anni sulla panchina del Bellinzona. La stagione successiva allenai
il Winterthur, sempre nella B svizzera. Non sapevo una parola di
tedesco, allora iniziai a masticare un po' di lingue, ma la loro
mentalità è completamente diversa dalla nostra latina. Nell'estate 2004
accettai l'offerta Neuchatel, che militava nella massima divisione.
Rimasi fino alla primavera successiva ed eravamo secondi in classifica,
poi tornai in B. Questa volta al Sion, che aveva e ha tutt'ora un grande
presidente come Constantin. La mia era una missione impossibile, perché
in dodici giornate bisognava recuperare quattordici punti a due
squadre; alla fine non riuscimmo a ottenere la promozione in A, ma
solamente per un discorso legato alla differenza reti. Restai al Sion
anche la stagione successiva, ma dopo dodici partite tornai in Italia, a
Cremona. La Cremonese, all'undicesima giornata di Serie B, era
all'ultimo posto in graduatoria. Abbiamo cullato il sogno salvezza fino a
sei giornate dalla fine del campionato, poi la sconfitta esterna con il
Modena ci condannò alla retrocessione. Fu comunque un'esperienza
interessante perché ritrovai una mentalità diversa da quella svizzera.
Nelle tre stagioni successive tornai in Svizzera; allenai per due anni
il Lugano in B e per un anno il Chiasso in C, con cui raggiungemmo la
promozione diretta”.
E nel 2000 è stato uno dei candidati per la panchina della Svizzera...
“Sì in quel momento lì nacque questa possibilità. Io e i vertici
della federcalcio svizzera ci eravamo incontrati raggiungendo un
accordo, però io avevo un contratto di tre anni con il Bellinzona. Ero
ovviamente riconoscente ai dirigenti del club che avevano creduto in me e
non mi sembrava corretto accettare la proposta della federazione. Avevo
chiesto di poter ricoprire entrambi gli incarichi e potevamo farcela a
gestire entrambi le cose, ma per loro non era possibile. Così non se ne
fece più nulla”.
Veniamo ai giorni nostri. Che esperienze sono state quelle in Ungheria e Algeria?
“Nel 2009 andai al Vasas, in Ungheria. Era impensabile apprendere
la lingua, quindi lavoravo con i ragazzi parlando in inglese, tedesco,
francese e poco ungherese, ma il messaggio nello spogliatoio passava in
maniera incredibile. In Ungheria sotto il profilo atletico-fisico sono
dei grandi giocatori e c'è una buona scuola per quanto riguarda la
tattica, ma ci sono molte problematiche con il lato tecnico. E' stata
un'esperienza molto bella, con un presidente incredibile e serissimo, un
ex tennista che aveva anche partecipato alle Olimpiadi. Poi ci furono
delle partite strane, ma io ho saputo solamente un anno più tardi cosa
stava accadendo; mi ha dato fastidio perché non siamo riusciti a capire
cosa succedeva né io né il mio secondo. Ad un anno di distanza furono
arrestati alcuni giocatori per calcioscommesse. Al mio secondo anno, ad
ottobre 2010, il presidente mi chiamò dicendomi che non poteva più
tenermi per problemi economici. Una volta tornato a casa, venne fuori
l'occasione con l'ES Setif, club pluricampione d'Algeria. Firmai un
contratto della durata di diciotto mesi e nell'accordo c'era anche una
clausola: se io avessi abbandonato il mio incarico prima della scadenza
avrei dovuto pagare una cifra incredibile. Tra campionato e Champions
League africana, giocavamo ogni tre giorni e si accavallarono partite,
ma la squadra era abituata a quei ritmi. Ci definirono il Barcellona
d'Africa per il bel calcio che praticavamo. In campionato vincemmo sei
partite di fila, poi incappammo in due pareggi ed una sconfitta”.
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