Cinque stagioni, 152 presenze, una
promozione in Serie A, una Coppa Italia e anche capitano della Samp.
Cos'altro aggiungere?
“Quella promozione nella massima
serie arrivò dopo un campionato molto sofferto, nonostante avessimo
la migliore squadra del campionato di Serie B. Ricordo la vittoria
della Coppa Italia in un Ferraris pieno di tifosi, tutti molto
contenti ma anche molto disciplinati; non ci fu alcuna invasione di
campo, erano tutti lì ad applaudire e a gioire insieme a noi.
Indubbiamente ho un ricordo molto forte della mia esperienza in
blucerchiato. Mi sono realizzato soprattutto in questa squadra, nella
Samp sono stato capitano ed uno dei punti di riferimento. Senza
dubbio una grande soddisfazione per me”.
Nell'estate '86, però, passò dalla
sponda blucerchiata a quella rossoblu.
“Verso fine marzo il presidente
Mantovani mi convocò e mi disse che non sarei rientrato nei
programmi del nuovo allenatore. Il mio procuratore Claudio Nassi,
colui che mi aveva portato alla Sampdoria, mi chiamò per seguirlo
alla Fiorentina, dove aveva assunto la carica di direttore sportivo,
e decisi di firmare il contratto con la società gigliata. Durante
una partita di Coppa Italia contro il Como - la mia ultima
apparizione con la maglia blucerchiata - mi infortunai e poi fui
operato al menisco. Successivamente effettuai le visite mediche per
la Fiorentina, ma i medici non mi diedero l'idoneità. Nel frattempo
Bersellini, mio allenatore ai tempi della Samp, era diventato il
nuovo tecnico dei viola, ma il mio contratto dovette essere
stracciato. Così rimasi senza squadra fino a metà agosto, quando mi
chiamò Spinelli, allora presidente del Genoa. Decisi di accettare la
proposta dei rossoblu, anche perché la mia famiglia si trovava
benissimo a Genova e potemmo ritornare nella casa che avevamo
lasciato poco prima”.
Possiamo dire quindi che per lei il
derby della Lanterna non è una partita come le altre?
“Sicuramente. Nei miei due anni
all'Inter non ho mai vinto un derby, mentre a Genova non ne ho mai
perso uno. Il derby della Lanterna viene vissuto quotidianamente tra
i tifosi delle due squadre; l'importante è soprattutto arrivare
davanti all'altra squadra a fine campionato, mentre a Milano invece
era quello di vincere lo scudetto. Non ho mai vissuto quello di Roma,
però penso sia più o meno uguale a quello di Genova”.
Il derby dei poveri, dei disperati e
chi più ne ha più ne metta. Lei come lo definirebbe quello di
domenica?
“E' senza ombra di dubbio un derby
tra due squadre in gravi difficoltà di classifica, quindi credo che
l'obiettivo primario sia quello di non perdere. Mi immagino di vedere
in campo la paura di scoprirsi, di attaccare e di essere poi colpiti
in contropiede. In questo momento il Genoa sta leggermente meglio, la
prestazione di domenica è stata più positiva di quella fornita
dalla Samp a Palermo. Zero tiri in porta e tanta insicurezza, i
blucerchiati al Barbera non mi sono piaciuti”.
La vittoria varrebbe doppio, ma un
punto potrebbe accontentare entrambe?
“Il pareggio potrebbe
rappresentare un brodino non riscaldato, ma tiepido. E' chiaro
comunque che ottenere i tre punti permetterebbe di lavorare per un
po' di tempo con tranquillità, serenità e maggiore autostima”.
Si aspettava che Ferrara fosse
confermato dopo sette ko consecutivi?
“La Sampdoria è sempre stata una
società molto seria, quadrata e poco viscerale; prende le decisioni
con un certo criterio per cui ci può stare. Forse è l'unico club
italiano che dopo sette sconfitte sostiene il proprio allenatore,
penso che da nessun'altra parte sarebbe mai accaduto. Uno dei
problemi principali è rappresentato dalla mancanza di qualche uomo
determinate, soprattutto davanti, come Maxi Lopez e Pozzi. Se si è
costretti a schierare come terminale offensivo Eder, che non è una
prima punta, non è colpa dell'allenatore. Si tratta di un'emergenza
alla quale bisogna cercare di porre rimedio. L'impressione è che la
squadra giochi anche con paura e con la convinzione che rimontare sia
molto difficile”.
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